Motivi dell’esodo dei giovani dal posto di lavoro e della difficoltà delle aziende a reperire lavoratori
Trattasi di un fenomeno che ha generato negli ultimi mesi un boom di dimissioni volontarie, che trova riscontro nei sostenitori della filosofia: “si vive una volta sola” (“you only live once”) –YOLO- , particolarmente inclini ad una condizione di benessere (well-being), di sostenibilità (nel senso di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente, senza compromettere la possibilità alle generazioni future di realizzare i propri) e di equilibrio tra il tempo dedicato al lavoro e alla vita privata.
Secondo il concetto di godere ogni giorno quanto di buono la vita ci offre, considerato che il futuro è imprevedibile.
Situazione che però covava da tempo, specie nel settore sanitario, a causa delle denunciate carenze, quali: insufficiente organico, mancati riposi, aggressioni nei reparti e un deludente adeguamento delle retribuzioni, imputabili alla rimodulazione delle pratiche lavorative imposte dalla pandemia.
Pandemia che, per effetto delle profonde modifiche gestionali e soluzioni operative, ha indubbiamente accelerato, incrementato ed esteso malcontento e conseguenze fisiche anche ad altre categorie.
Come una recente indagine, condotta online su 1000 persone dall’esperto di ricerche Human Highway, per Assosalute (Associazione nazionale farmaci di automedicazione o “da banco”), ha dimostrato.
Visto che ha riscontrato che 8 persone su 10, in Italia, dichiarano di aver sofferto, nell’ultimo anno, di almeno un disturbo riconducibile proprio allo stress.
Inconveniente che ha indotto molti lavoratori ad orientare maggiormente la loro priorità verso la famiglia ed il riposo e, al contempo, rivendicare una maggiore flessibilità del luogo e sicurezza di/del lavoro e una più equa e dignitosa retribuzione.
Alle descritte motivazioni dell’allontanamento dal lavoro si unisce poi, secondo Alberto Pastore, professor di Economia e Gestione delle imprese e Delegato della Rettrice al Placement all’Università La Sapienza di Roma, la disincentivazione dei giovani ad intraprendere un’attività lavorativa regolare per l’effetto congiunto dell’applicazione di norme concernenti: il livello di retribuzione, l’Indennità di disoccupazione e il Reddito di cittadinanza; spesso integrati dall’opportunità di lavoro temporaneo e/o in nero. Il che, anche se contribuisce ad assicurare loro una temporanea sopravvivenza economica, li distoglie dall’edificante ambizione a raggiungere una condizione di lavoro duratura e professionalmente qualificata.
Condizione che, molto probabilmente, potrebbe essere più agevolmente conseguita se la corresponsione di parte dei menzionati sussidi fosse non fine a se stessa, ma costituisse un congruo riconoscimento a chi si impegna in attività di formazione mirate ad acquisire qualificate competenze, necessarie per il soddisfacimento delle molteplici tipologie di richieste provenienti del mondo del lavoro. Delle quali il 39% e oltre il 25% , rispettivamente, nel Nord e nel Mezzogiorno d’Italia, rimangano inevase.
Carenza di profili professionali alla quale, secondo un rapporto della McKinsey & Company (Società internazionale, leader al mondo di consulenza strategica manageriale), influisce la condizione di:
- Inattivi, cioè coloro che, per mancanza di fiducia e di speranza o per la fruizione di un supporto economico familiare, non lavorano e non cercano lavoro;
- NEET: persone prevalentemente giovani che non hanno né cercano un impiego e non frequentano una scuola, né un corso di formazione o di aggiornamento professionale;
- Inadeguatezza degli enti di supporto preposti alla ricerca del lavoro. Tant’è che In Italia, in genere, a procacciare il lavoro ai giovani, in età compresa fra i 15 e i 29 anni, risultano essere gli amici e i parenti; mentre i canali istituzionali, come i Centri per l’impiego, contribuiscono soltanto nella proporzione dell’1%. A differenza della Germania, dove gli Uffici di Collocamento provvedono alla ricerca dell’occupazione per l’80%;
- Inadeguatezza del rapporto tra la struttura dei programmi scolastici ed i reali bisogni del sistema produttivo italiano. Considerato che solo il 38% di diplomati di Istituti Tecnici e Professionali intervistati, per un carente orientamento loro riservato, conosce le opportunità occupazionali offerte dai vari percorsi scolastici. Per cui, meno del 30% degli universitari sceglie l’indirizzo di studi sulla base degli sbocchi occupazionali, mentre il 66% è motivato dall’interesse e dalle attitudini personali, con il risultato del conseguente disallineamento tra domanda ed offerta;
- Carenza di adeguate competenze ai bisogni del sistema produttivo rilevata dalle aziende italiane. Le quali reputano, inadatti a svolgere le mansioni loro richieste, il 47% (rispetto alla media europea del 33%) dei giovani appena inseriti in attività lavorative. A causa della brevità (inferiore ad un mese) e alla partecipazione di solo la metà degli studenti, allo svolgimento di stage e tirocini, in quasi il 50% delle scuole superiori e in circa il 30% delle università.
Insieme di constatazioni che evidenziano non trascurabili condizioni deficitarie riconducibili a mancanza o inadeguatezza di interventi gestionali in vari ambiti, che contribuiscono, secondo i dati ISTAT del Marzo 2022, a registrare un tasso di disoccupazione dell’8,5% complessivo, del 24,5% tra i giovani da 15 a 29 anni e del 34,5% di inattivi di tutte le classi di età. Condizioni per ovviare alle quali, lo stesso rapporto Mckinsey indica le seguenti proposte risolutive:
- Offerta formativa adeguata alla domanda;
- Rivalutazione delle scuole tecniche e professionali;
- Stretta collaborazione tra scuola e lavoro (con studenti e insegnanti in azienda e datori di lavoro nelle scuole);
- Sistematici e generalizzati servizi di orientamento scolastico;
- Efficacia dei canali di collocamento dei giovani sul mercato del lavoro.
Per quest’ultima puntualizzazione, considerato il citato deludente esito della funzione dei Centri per l’Impiego, si ipotizza che, qualora le Amministrazioni comunali e regionali, a seconda dell’entità delle attività imprenditoriali presenti nel loro territorio, provvedessero al diretto monitoraggio delle specifiche esigenze lavorative; e, nel contempo, istituissero e adeguassero i programmi dei Centri di Formazione e Riqualificazione permanente, alle tipologie di competenze di cui necessitano le Aziende; la situazione che attualmente penalizza lavoratori e datori di lavoro, probabilmente, risultando meno appesantita dalla burocrazia e più circoscritta, potrebbe essere più agevolmente ed efficacemente avviata a soluzione.