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Si abilita presso la CCIAA di Roma e fa esperienza nel campo immobiliare affiancando per un periodo il vicepresidente FIMAA (Federazione Italiana Mediatori Agenti Affari) per poi intraprendere l’attività di Agente Immobiliare su Roma e Castelli Romani.
 
 
Associata FIMAA, alla quale e’ iscritta dal 2009, grazie ai numerosi convegni e ai continui programmi formativi organizzati dall'associazione cui ha partecipato, ha acquisito una notevole e specifica competenza in materia, assistendo la clientela nelle compravendite e locazioni; nella cantieristica; offrendo servizi di consulenza sia immobiliare che per ciò che riguarda i finanziamenti oltre alle problematiche urbanistiche che alle valutazioni degli immobili.
 
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5 consigli per dormire bene: come risvegliarsi pieni di energie liberi dai dolori al collo o alla schiena

5 consigli per dormire bene: come risvegliarsi pieni di energie liberi dai dolori al collo o alla schiena Copertina (949)
Alessandra Benassi

Ti capita di soffrire di dolori al collo o alla schiena? spesso fai fatica a trovare una posizione comoda per dormire? alcune mattine ti alzi e avverti particolari fastidi o dolori?
Se ad alcune di queste domande hai risposto di si, in questo articolo troverai alcuni consigli che fanno al caso tuo. Scoprirai come preservare, durante la notte, le curve naturali della colonna vertebrale e mantenere un allineamento neutro di gambe, bacino, busto e braccia.
 
 
Ecco i 5 consigli dello staff dello studio di Fisioterapia Fisiologic Mira:
 
  1. Evita di dormire a pancia in giù. In questa posizione, per respirare, la testa viene ruotata da un lato e a causa dell’eccessiva rotazione si verifica un aumento dei dolori al collo. Di conseguenza si incorre in un affaticamento muscolare e in una maggiore compressione del rachide cervicale. Inoltre, la parte bassa della schiena è posta in iperestensione, causando una maggiore compressione della colonna lombare.
  2. Le dimensioni del cuscino contano: ti incoraggiamo a provare diversi cuscini per vedere quali sono più adatti a te. Ricorda che una taglia non va bene per tutti! Evita di dormire con il doppio cuscino, con quelli troppo grandi o gonfi e quelli eccessivamente piatti. Cerca un cuscino che mantenga la testa e il collo in allineamento neutro in modo che siano in linea con il resto della colonna vertebrale. Che tu stia dormendo sulla schiena o su un fianco, assicurati che il cuscino riesca a supportare tutta la curva del collo. Se vedi uno spazio tra il cuscino e il collo, significa che non c’è supporto in quell’area specifica.
  3. Se dormi sulla schiena posiziona un cuscino sotto le cosce. Questo ti permetterà di scaricare e decomprimere la colonna vertebrale consentendo una leggera curva nelle ginocchia. Queste lievi regolazioni possono fornire sollievo alle articolazioni.
  4. Se dormi sul fianco metti un cuscino tra le ginocchia e sotto il braccio. In questo modo puoi allineare il tuo corpo in posizione neutra, fornendo maggiore supporto alle gambe, alle braccia e al busto. Un cuscino tra le ginocchia mantiene le gambe e il bacino allineati e riduce il rischio di rotazione eccessiva del busto e del bacino. Un cuscino posto sotto il braccio superiore lo mantiene in linea con il busto minimizzando il rischio che la spalla superiore venga tirata in avanti.
  5. Evita di rannicchiarti in posizione fetale. Anche se all’inizio può sembrare confortevole, questa posizione causa un aumento della tensione alla schiena e al collo poiché entrambe le aree vengono flesse in avanti. Tieni le ginocchia leggermente piegate (non sollevarle troppo in alto verso il petto), assicurati che la testa sia in linea con il resto del corpo e piega leggermente il mento in modo che la parte posteriore del collo sia allungata.
     
Preserva, durante il sonno, le curve naturali della tua colonna vertebrale e mantieni l’allineamento neutro di gambe, bacino, busto e braccia. Questo ti permetterà di avere un risveglio energico e di preservare il tuo benessere psico fisico.

DSA - Cosa sono i Disturbi Specifici dell' Apprendimento

DSA - Cosa sono i Disturbi Specifici dell' Apprendimento Copertina (1.386)
Annalisa Muto

 
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un vertiginoso aumento di diagnosi di Disturbo dell’apprendimento. Ma di cosa si tratta? Qual è la causa di tale boom diagnostico?
La letteratura scientifica definisce i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) come “Disturbi che coinvolgono uno specifico dominio di abilità lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale ed interessando le competenze strumentali degli apprendimenti scolastici”. Si tratta quindi di difficoltà di apprendimento delle competenze scolastiche nei domini di lettura, scrittura e calcolo associate ad un funzionamento intellettivo generale nella norma.
 
Ad oggi, la prevalenza è pari al 5-15% tra i bambini in età scolare e del 4% negli adulti. I disturbi dell’apprendimento (DSA) sono in aumento, tanto che si stima, secondo quanto riportato da Agi.it, un incremento del 450% in soli 7 anni. Secondo i dati resi noti dalle aziende sanitarie nell’anno scolastico 2010-2011 i ragazzi dislessici o disgrafici, riconosciuti tramite i documenti delle aziende sanitarie, erano appena lo 0,7% del totale. Sette anni dopo, nel 2017-2018 rappresentavano il 3,2% della popolazione studentesca per un totale di 276 mila. L’introduzione nel 2010 della legge 170 sulle “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico” ha contribuito a causare un aumento delle diagnosi di DSA. La normativa non solo riconosce al bambino le varie difficoltà di apprendimento, ma permette allo studente con diagnosi di usufruire di “appositi provvedimenti dispensativi e compensativi di flessibilità didattica nel corso dei cicli di istruzione e formazione”.
 
Tali difficoltà di apprendimento esistono da sempre, ma un tempo coloro che le vivevano venivano scambiati per alunni pigri, poco volenterosi. Grazie alla maggior diffusione di conoscenze sull’argomento, alla formazione di personale specializzato e all’interesse di molti insegnanti riguardo alla tematica è oggi possibile discriminare tra lo scarso impegno e la presenza di problematiche che, se non adeguatamente riconosciute e trattate, rischiano di rendere impossibile per il bambino il raggiungimento degli obiettivi didattici con conseguente impatto negativo sull’autostima. Questo può portare allo sviluppo di disturbi psicologici (depressione, ansia), o di problematiche comportamentali, fino a favorire un tasso di abbandono scolastico nettamente superiore alla media.
Riconoscere un eventuale Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA) il prima possibile, e quindi formulare una diagnosi DSA che sia tempestiva per fornire all’alunno le adeguate misure dispensative e compensative previste dalla legge, riveste un’importanza fondamentale. Se adeguatamente presi in carico, infatti, i bambini con difficoltà di apprendimento sono perfettamente in grado di svolgere il medesimo programma e raggiungere gli stessi obiettivi didattici dei compagni.
 
Per fare diagnosi di DSA ci si riferisce ai principali sistemi diagnostici internazionali (DSM V, ICD10) e in modo particolare, in ambito italiano, alle “Raccomandazioni per la pratica clinica definite con il metodo della Consensus Conference”, promossa nel 2007 dalle principali società scientifiche e associazioni italiane, e alle indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità del 2010. Il processo diagnostico, così come indicato dalle Linee Guida, può essere suddiviso in due distinte fasi, rispettivamente finalizzate all’esame dei criteri diagnostici prima di inclusione e successivamente di esclusione. Nella prima fase si somministrano, insieme alla valutazione del livello intellettivo, quelle prove necessarie per l’accertamento di un disturbo delle abilità comprese nei DSA (decodifica e comprensione in lettura, ortografia e grafia in scrittura, numero e calcolo in aritmetica). Questa fase permette al clinico di formulare o meno una diagnosi provvisoria (nell’accezione utilizzata dal DSM V) o di orientamento di disturbo specifico evolutivo dell’apprendimento. Una particolare attenzione deve essere posta nell’ indagine anamnestica che deve indagare, oltre alle classiche aree di raccolta delle informazioni, lo sviluppo visivo e uditivo, tenendo conto del bilancio di salute operato dal pediatra o dal medico curante del bambino. Dai dati acquisiti in questa fase, il clinico è in grado di valutare, dopo la verifica strumentale relativa alla presenza dei sintomi di inclusione, se indicare ulteriori accertamenti relativi ai criteri di esclusione. Nella seconda fase vengono disposte quelle indagini cliniche necessarie per la conferma diagnostica mediante l’esclusione della presenza di patologie o anomalie sensoriali, neurologiche, cognitive e di gravi psicopatologie.
A conclusione del percorso diagnostico il professionista sanitario redige un referto scritto sulla valutazione attuata, indicando il motivo d’invio, i risultati delle prove somministrate ed il giudizio clinico sui dati riportati. A tal proposito l’istituto Superiore di Sanità indica che le figure specialistiche deputate per la diagnosi di DSA sono lo Psicologo, il Neuropsichiatra infantile o il Logopedista.
Per quanto riguardo l’età in cui è possibile effettuare la diagnosi, essa dovrebbe teoricamente coincidere con il completamento del 2° anno della scuola primaria relativamente alla diagnosi di dislessia, disgrafia e disortografia e di 3° anno della scuola primaria per quanto riguarda la diagnosi di discalculia.
A seguito del percorso diagnostico diviene poi necessario una presa in carico specifica, basata su un modello chiaro e su evidenze scientifiche e deve essere erogato quanto più precocemente possibile tenendo conto del profilo emerso dalla diagnosi.
 
Il trattamento dei DSA si basa sull’idea che le competenze di lettura, scrittura e calcolo sono il frutto della molteplice attivazione delle funzioni corticali superiori. Attenzione, memoria, percezione, ragionamento logico, pianificazione sono solo alcune delle numerose funzioni cognitive che vengono coinvolte nell’espletamento di competenze quali la lettura, la scrittura o il calcolo. E’ fondamentale quindi, a seguito di un’attenta valutazione, individuare in quali domini si riscontrano cadute e quali sono i punti di forza del bambino andando così ad agire con il trattamento attraverso un training specifico ed intensivo. Le stesse linee guida consigliano trattamenti intensivi, di 2-3 volte a settimana, meglio se incrementato con ulteriori esercitazioni da fare a casa tutti i giorni per poco tempo al giorno ed alternando cicli ripetuti di almeno 3 mesi di trattamento. Le figure che ad oggi ruotano attorno ai bambini con diagnosi di DSA sono il logopedista, lo psicologo, il neuro-psicomotricista, l’ortottista ed il tutor DSA che, in collaborazione con scuola e famiglia, conseguono l’obiettivo di migliorare non solo le performance scolastiche quanto in generale il benessere psico-fisico del bambino. Ognuna di queste figure, con le proprie competenze e nei propri specifici campi di intervento, interverrà in modo da costruire un percorso adeguato al singolo profilo individuale.
Che futuro aspetta ad un bambino con diagnosi di DSA? Non è facile rispondere a questa domanda. Quello che si può dire è che gli effetti della dislessia da adulti dipenderanno dalla severità del disturbo, dall’età in cui è stato diagnosticato e dalla qualità del supporto avuto a casa, a scuola e in ambito sanitario. Una tarda identificazione o un errato approccio potrebbero determinare problemi aggiuntivi. Per esempio, potrebbe svilupparsi una fragilità emotiva, dovuta agli insuccessi scolastici; potrebbero manifestarsi malesseri fisici, ozio e/o passività; potrebbe instaurarsi un sempre maggiore rifiuto a proseguire negli studi; potrebbero diventare irrequieti e fortemente disturbanti a scuola; potrebbero rifiutare il problema e, di conseguenza, gli aiuti di cui necessiterebbero, portandosi dentro un carico emotivo eccessivo.
 
 
BIBLIOGRAFIA
indicazioni consensus_DSA2007.pdf
guida_per_genitori.pdf
www.agi.it

COVID-19: anosmia e logopedia

COVID-19: anosmia e logopedia Copertina (3.104)
Annalisa Muto

L’anosmia è un termine clinico che indica la perdita dell’olfatto; essa è spesso associata alla perdita del gusto, definita ageusia. Gli odori che percepiamo sono prodotti dalle molecole volatili che vengono in contatto con le cellule della mucosa olfattiva. Esiste un’altra via di accesso delle molecole volatili nella mucosa olfattiva: la bocca. L’informazione olfattiva, una volta raggiunta la mucosa olfattiva, raggiunge le zone del cervello responsabili dell’elaborazione dell’odore. La diminuzione (microsmia o iposmia) o l’assenza dell’olfatto (anosmia) può dipendere da cause ostruttive (le molecole odorose non riescono a raggiungere l’area olfattiva a causa di ostacoli meccanici) o cause neurosensoriali (le molecole odorose raggiungono la mucosa olfattiva ma l’informazione non viene elaborata nel cervello a causa di un danno ai neuroni olfattivi). Tra le cause neurosensoriali dell'anosmia possiamo trovare un danno permanente o temporaneo a livello del Sistema Nervoso Periferico, come nel caso di virus influenzali che danneggiano i recettori nervosi dell'olfatto causandone un ridotto funzionamento o un danno a livello del Sistema Nervoso Centrale; a tal proposito si pensi che nella malattia di Parkinson il deficit olfattivo (ipo o anosmia) è considerato tra i sintomi pre-motori più importanti. Spesso si riscontra anosmia anche nei traumi cranici, nella malattia di Alzheimer ed in alcune neoplasie cerebrali.
In questi ultimi mesi si è sentito spesso nominare questi due segni clinici in quanto frequentemente riscontrati in pazienti positivi al COVID-19. Stando ad alcuni report clinici relativi a dati preliminari accumulati su pazienti in diversi paesi del mondo, tra cui l’Italia, l’Inghilterra e l’America, infatti, l’anosmia e l’ageusia potrebbero essere due tra i primi sintomi di infezione da coronavirus.
Dallo studio coordinato dal virologo Prof. Massimo Galli, del Dipartimento di malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, e accettato dalla rivista 'Clinical Infectious Diseases', emerge che i disturbi di gusto e dell’olfatto rappresentano manifestazioni cliniche frequenti in pazienti con infezione da Sars-CoV-2. A tal proposito il Prof. Galli ha chiarito che "disturbi di olfatto e gusto sono assai frequenti nel Covid, venendo ad interessare circa un paziente su tre e colpiscono particolarmente i giovani e il genere femminile. Sono spesso riportati già in fase precoce di malattia".
Ad aprire il dibattito sul tema sono stati due otorinolaringoiatri inglesi, Claire Hopkins del King’s College London, presidente della British Rhinological Society, e Nirmal Kumar, presidente di ENT UK che segnalano, su un articolo pubblicato sul British Medical Journal, che il 30% dei pazienti della Corea del Sud positivi al nuovo coronavirus non sentono gli odori.
Sulla scia di questi studi anche l’American Academy of Otorinolaringology – Head and Neck Surgery ha pubblicato una dichiarazione in cui propone di aggiungere questi sintomi fra le manifestazioni di cui tenere conto quando si fa diagnosi di COVID-19.
Discorso analogo in Germania, dove il virologo Dott. Hendrik Streeck, basandosi su prove aneddotiche, ha dichiarato che oltre i due terzi delle persone che ha visitato perché positive al virus pandemico hanno raccontato di aver sofferto di anosmia e ageusia.
A partire da questi studi è stata sollevata la questione di poter utilizzare la presenza di questi sintomi come strumento di screening per aiutare a identificare pazienti altrimenti asintomatici o perlomeno, a segnalare tempestivamente pazienti con questi sintomi, per contribuire a rallentare la trasmissione del virus e salvare vite umane. Ad oggi è stato avviato un progetto dell'associazione internazionale Global Consortium for Chemosensory Research, cui partecipa anche la Sissa (Scuola Internazionale superiore di studi avanzati) di Trieste, e le istituzioni di 50 Paesi nel mondo, il cui obiettivo è capire perché, come e quanto spesso i malati di Covid-19 perdono gusto e olfatto. La perdita del gusto nei pazienti COVID- si presenta in maniera del tutto peculiare e per tanto si vuole approfondire la conoscenza della situazione; conoscere in modo approfondito l’origine potrebbe aiutare a comprendere i diversi aspetti dell'azione del virus sull'organismo e del contagio. "Attraverso questo studio si lavorerà per capire meglio le origini della perdita dell'olfatto e del gusto, quanto siano frequenti nei pazienti Covid-19 e scoprire se possano essere dei potenziali segnali di allarme per identificare la malattia anche in assenza di altri sintomi, una caratteristica che, se verificata, sarebbe molto importante per identificare rapidamente la possibilità di contagio da parte del virus" annuncia la dott.ssa Anna Menini.
Tuttavia non c’è ancora evidenza di una connessione certa tra anosmia e Covid-19. Per tale ragione l’Organizzazione Mondiale della Sanità non ha ancora inserito l’anosmia nella lista dei sintomi comuni, che sono invece febbre, stanchezza e tosse secca. Fra gli altri sintomi, un po’ meno diffusi, respiro corto e difficoltà respiratoria anche grave, dolori muscolari, mal di gola, e in pochi casi diarrea, nausea e raffreddore.
Gli esperti, infatti, prima di pronunciarsi in modo definitivo devono capire quanto è comune il collegamento, in quale fase della malattia i pazienti affetti da Covid-19 perdono il loro senso dell’olfatto o se invece vi è semplicemente una casuale presenza di allergie, raffreddori o influenza stagionale, che possano causare anosmia o ageusia indipendentemente dal virus.
In attesa di ulteriori conferme, c’è da dire che l’ipotesi sembra abbastanza plausibile. I virus del raffreddore, com’è noto, danno luogo a perdita dell’olfatto, ed è stimato che oltre 200 virus possano avere effetti simili. Si sa che gli altri coronavirus portano a perdita dell’olfatto – e di conseguenza anche del gusto – in circa il 15% dei casi: non sarebbe quindi sorprendente scoprire che anche COVID-19 causai anosmia nei pazienti infetti.
Circa la durata della sintomatologia il Prof. Galli, così come gli altri esperti dichiarano di ‘’non essere ancora in grado di dire nulla sulla possibile durata di queste alterazioni’’ per presenza sia di perdite di breve durata sia di pazienti che ancora non hanno ripreso la funzionalità al 100%.
 
Logopedia e anosmia
Non esistono, ad oggi, protocolli riabilitativi validati a livello internazionale per la riacquisizione dell’olfatto; tuttavia esistono programmi logopedici mirati a stimolare le vie sensoriali olfattive, a stimolare la percezione degli odori e potenziare le abilità residue. Ad oggi questo tipo di riabilitazione si effettua nelle patologie neurologiche quali Malattia di Parkinson, Demenza di Alzheimer e patologie neurodegenerative ma nel futuro potrebbe estendersi anche ai pazienti anosmici da COVID-19.

Sciatica: cause, sintomi e come trattarla

Sciatica: cause, sintomi e come trattarla Copertina    (commenti:1) (1.798)
Alessandra Benassi

Sciatica o sciatalgia, sono termini utilizzati comunemente per descrivere sintomi correlati all’infiammazione del nervo sciatico le cui radici originano dalle vertebre del tratto lombare.
 
Il nervo sciatico, è il più lungo del corpo, parte dal midollo spinale e si ramifica lungo ciascuna gamba. Controlla i muscoli dell’anca, della coscia, della parte inferiore della gamba e dei piedi. Per questo, nel caso d’infiammazione, attività comuni della vita quotidiana, come sedersi, camminare, stare in piedi, piegarsi e sollevarsi, possono essere compromesse.
 
Sintomatologia
 
Il sintomo più comune è il dolore che si irradia lungo la parte posteriore della coscia e nella parte inferiore della gamba. Tende a diffondersi fino al polpaccio coinvolgendo il piede. Inoltre può causare intorpidimento, formicolio e debolezza muscolare degli arti inferiori. Il paziente tipico tende a svegliarsi per il dolore durante la notte.
Generalmente si presenta solo su un lato, dando origine a un dolore di tipo asimmetrico con diversi livelli di intensità: sordo o acuto ed è possibile sentire tirare o bruciare.
 
Fattori di rischio
 
  1. Età: le persone con età compresa tra 30 e 60 anni sono maggiormente a rischio.
  2. Obesità: l’eccesso di tessuto adiposo provoca uno sforzo sulla colonna lombare con conseguente stress meccanico sulle vertebre.
  3. Stile di vita: fumo, sedentarietà e una dieta squilibrata sono rilevanti fattori di rischio. Le persone che conducono uno stile di vita attivo hanno meno probabilità di sviluppare la sciatica rispetto a coloro che conducono uno stile di vita sedentario. Attenzione anche gli atleti devono bilanciare le loro routine con adeguate sessioni di stretching e massaggio, così da evitare il mal di schiena associato alla sciatalgia.
Cause
 
La sciatalgia può essere correlata:
  • alla presenza di un’ernia del disco
  • alla presenza sulla colona vertebrale di artrosi
  • alla presenza di stenosi
  • ad abitudini posturali malsane
  • a circostanze casuali e sforzi (es: movimenti bruschi o esecuzione scorretta di un esercizio durante l’allenamento)
  • alla compressione del nervo sciatico causata dal muscolo piriforme.
  • a lesioni alla schiena e processi degenerativi
  • alla gravidanza
 
Come trattare la sciatalgia
 
In primo luogo ogni caso di sciatica, e in generale ogni patologia, è diverso come ogni persona è unica. Ad esempio alcuni pazienti avvertono un dolore lancinante e altri hanno solo sintomi lievi.
La buona notizia è che la sciatica può essere spesso trattata ricorrendo a metodi conservativi.
Come abbiamo appena visto le cause possono essere molteplici, dunque il primo passo è rivolgersi allo specialista o al fisioterapista e individuare cosa sta causando il dolore.
Inoltre potrebbero essere necessari test diagnostici quali: raggi X, risonanza magnetica, scansione TC e / o test elettrodiagnostici (elettromiografia o EMG e velocità di conduzione nervosa o NCV).
 
Terapia farmacologica
 
Il tuo medico può prescriverti un farmaco, soprattutto nella fase acuta del dolore. In questo modo il medico e il fisioterapista possono collaborare per creare la migliore strategia di trattamento.
 
Terapia fisica
 
La terapia fisica può essere la tua prima linea di difesa l’obiettivo sarà quello di ridurre il dolore muscolare e nervoso, aumentare la flessibilità, ripristinare la funzione e tornare a uno stile di vita privo di dolore. Il fisioterapista si occuperà di sviluppare un piano di trattamento totalmente personalizzato integrando molteplici risorse come: massaggi, terapia con trigger point, LaserHilt, Tecar terapia, rieducazione motoria e rieducazione posturale.
 
Per chi soffre di un dolore lieve, lo staff dello studio di Fisioterapia di Santa Maria delle Mole, Fisiologic Mira, ha selezionato alcuni esercizi di auto trattamento per alleviare i disagi legati alla sciatalgia:
 
NB: Assicurati di tenere ogni esercizio per 20-40 secondi ed esegui gli allungamenti su entrambi i lati. Inizia prima dal lato meno colpito poiché ciò garantirà un risultato migliore sul lato più doloroso.
  1. Ginocchio al petto: sdraiato sulla schiena con le ginocchia piegate e i piedi a terra (se possibile puoi tenere le gambe estese). Con entrambe le mani porta un ginocchio al petto per un allungamento confortevole della zona lombare e del gluteo. Mantieni la posizione per 20/40 secondi poi esegui l’esercizio dall’altro lato.
  2. Ginocchio al petto verso la spalla opposta: mantieni la posizione sdraiato sulla schiena, usa la mano sinistra e afferra il ginocchio destro portandolo al petto verso la spalla sinistra. Mantieni la posizione per 20/40 secondi poi esegui l’esercizio sull’altro lato.
  3. Ginocchia al petto: resta disteso a terra, porta entrambe le ginocchia al petto, mantieni la posizione per 20/40 secondi.
  4. Disteso sulla schiena con le ginocchia piegate e i piedi a terra. Posiziona la caviglia destra sopra il ginocchio sinistro, porta la mano destra sulla parte interna del ginocchio destro e mantenendo il bacino stabile e allineato spingo con la mano sul ginocchio per 20/40 secondi. Questo esercizio ti permetterà di allungare i muscoli rotatori esterni dell’anca compreso il piriforme.
  5. Sdraiato sulla schiena con le gambe estese o le ginocchia piegate e i piedi sul tappeto. Usando una cinghia elastica (una cintura o un asciugamano), afferra le sue estremità con le mani e posiziona il piede al centro dell’elastico e porta delicatamente la gamba verso il soffitto. All’inizio, tieni il ginocchio leggermente piegato. Lentamente raddrizzalo per proseguire nell’allungamento lungo la parte posteriore della gamba.
Nel caso di dolori in fase acuta contatta sempre uno specialista.

COVID-19: disfagia e logopedėa

COVID-19: disfagia e logopedėa Copertina    (commenti:2) (4.417)
Annalisa Muto

I Coronavirus sono una vasta famiglia di virus noti per causare malattie che vanno dal comune raffreddore a malattie più gravi, come la Sindrome respiratoria mediorientale (MERS) e la Sindrome respiratoria acuta grave (SARS). Quella che stiamo vivendo in questo momento storico è stata definita “COVID-19”, nome suggerito ed annunciato l’11 febbraio 2020 dal Direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus. COVID-19 rappresenta un nuovo ceppo di coronavirus che non è stato precedentemente mai identificato nell'uomo.
 
I sintomi più comuni di Covid-19 sono febbre, stanchezza e tosse secca. Alcuni pazienti possono presentare indolenzimento e dolori muscolari, congestione nasale, naso che cola, mal di gola o diarrea. Questi sintomi sono generalmente lievi e iniziano gradualmente. Nei casi più gravi, l'infezione può causare polmonite, sindrome respiratoria acuta grave, insufficienza renale e persino la morte. In quest’ultima tipologia di pazienti il coronavirus induce una forte infiammazione delle vie aeree profonde, al livello dei polmoni, e il paziente fatica quindi a respirare e introdurre ossigeno a sufficienza per l’ossigenazione degli organi. A seconda delle sue condizioni, il paziente può trovare beneficio da una semplice mascherina con ossigeno respirando autonomamente oppure può avere bisogno di interventi più complessi come il casco respiratorio, la ventilazione non invasiva (maschera collegata a un ventilatore) e l’intubazione. Se il paziente ha una situazione di estrema gravità, si procede al ricovero in terapia intensiva, in cui viene gestita sia la ventilazione non invasiva che l’intubazione. Per intubare i pazienti è necessario sottoporli ad anestesia generale, condizione in cui ogni singolo paziente dovrà rimanere per diversi giorni. L’intubazione è una manovra che consiste nell’inserimento di un tubo attraverso la cavità orale, che passa poi per la laringe (corde vocali) e si inserisce in trachea fino ai polmoni, in modo che possa convogliare l’aria e farli espandere e contrarre artificialmente, grazie al ventilatore cui è collegato. L’anestesia serve sia per facilitare l’inserimento del tubo, sia per evitare che i pazienti siano coscienti e cerchino di contrastare involontariamente la respirazione indotta dal ventilatore. Dopo qualche giorno, se le condizioni migliorano, l’anestesista di terapia intensiva può disporre un progressivo risveglio del paziente, seppure ancora intubato. Questa soluzione serve per ottenere un minimo di coscienza dai pazienti e per verificare l’andamento delle loro capacità respiratorie. Nel momento in cui si torna a respirare autonomamente, il ventilatore resta attivo poiché rileva quando il paziente inspira o espira e lo aiuta a trasportare la giusta quantità d’aria per far lavorare correttamente i polmoni.
L’intubazione è una manovra delicata che può causare conseguenze transitorie o permanenti più o meno gravi. Tra le conseguenze, dalle più frequenti alle più rare, troviamo: danneggiamento dei denti, dolore alla gola, raucedine, emorragie, perforazioni tracheali e disfagia.
 
 
Disfagia e COVID-19
La deglutizione è un atto fisiologico che consente il trasporto del cibo dalla bocca allo stomaco; ogni persona deglutisce in media più di mille volte al giorno per mangiare, bere o ingoiare la saliva. Il meccanismo deglutitorio è complesso e richiede il coinvolgimento di tutta una serie di strutture neuro-muscolari che devono coordinarsi affinché il bolo venga trasportato attraverso la “via” digestiva senza entrare in quella aerea.
Il cibo supera le labbra, viene masticato dai denti e miscelato con la saliva, grazie al movimento della lingua che crea un bolo omogeneo che viene poi trasportato dalla stessa nella parte posteriore della cavità orale; a questo punto il bolo stesso elicita il riflesso deglutitorio che innesca il movimento della muscolatura faringea, laringe ed esofagea fino a far arrivare il bolo nello stomaco. Se questo perfetto e sinergico meccanismo viene in qualche modo alterato si parla di disfagia ovvero disfunzione del meccanismo deglutitorio. È importante non sottovalutare questa problematica perché l’alterazione del fisiologico meccanismo deglutitorio può provocare conseguenze molto gravi, dalla polmonite Ab Ingestis alla morte, derivanti dalla penetrazione del cibo nelle vie aeree.
La disfagia è un segno clinico causato da un danno congenito o acquisito centrale (Sistema Nervoso) o periferico (ossa, muscoli etc.). La disfagia colpisce circa il 20% della popolazione generale e le cause possono essere di diversa natura (neurologica, iatrogena, infettiva, miopatica etc).
Si riscontra frequentemente difficoltà a deglutire nei pazienti dimessi dopo lunghi periodi di terapia intensiva, con una prevalenza tra il 20% e l'83% dei casi (che varia in base alla fascia d'età). Il motivo per cui si riscontra questa complicanza deriva dal fatto che l’intubazione protratta per un tempo superiore alle 48 ore aumenta il rischio di lesione delle vie aeree superiori con alterazioni dell’areodiamica, della meccanica e dei riflessi protettivi delle vie aeree stesse. La presenza di una via aerea artificiale e i cicli prolungati di ventilazione alterano la frequenza respiratoria propria del paziente e compromettono la delicata sincronia tra deglutizione e respirazione; questo provoca a lungo andare atrofia dei muscoli orofaringei per il loro non utilizzo, una soppressione dei riflessi di protezione delle vie aeree quali tosse e gag reflex (riflesso del vomito) e una inibizione della chiusura dell’epiglottide.
 
Disfagia e logopedìa
La disfagia viene solitamente diagnosticata dai medici specialisti (Otorino-laringoiatri o Foniatri) attraverso indagini strumentali specifiche (fibro-laringoscopia, video-fluoroscopia etc.). I sintomi che solitamente vengono riscontrati in pazienti disfagici sono: senso di soffocamento, tosse insistente, comparsa di colorito rosso o cianotico al volto. In altri casi la disfagia è silente e il cibo arriva nei polmoni senza la suddetta sintomatologia. Più in generale i sintomi che devono indurre il sospetto di disfagia sono:
  • segni di aspirazione: soffocamento, tosse e senso di strozzamento con l’ingestione di liquidi e solidi;
  • segni di difficoltà respiratoria durante il pasto: cambiamenti delle caratteristiche del respirare; respiro dispnoico; respiro rumoroso;
  • segni di affaticamento durante l’alimentazione;
  • calo di peso;
  • infezioni frequenti alle alte vie respiratorie;
  • difficoltà nella gestione di liquidi e/o cibi morbidi e/o cibi frullati e/o solidi.
 
Il percorso riabilitativo di un paziente disfagico si inserisce all’interno di un progetto riabilitativo complesso, che richiede il coinvolgimento di numerosi specialisti. Tra le figure che ruotano attorno al paziente disfagico troviamo: neurologo, foniatra/otorino-laringoiatra, fisiatra, infermiere, logopedista, fisioterapista, terapista occupazionale, psicologo/psicoterapeuta, nutrizionista e OSS. Fondamentale per il miglioramento del paziente è il coinvolgimento del sistema familiare o del caregiver.
In termini riabilitativi è fondamentale in prima istanza identificare quali sono le competenze residue del paziente (grazie alla visita specialistica strumentale), identificando quale tipologia di consistenza del cibo (liquidi, solidi, semiliquidi, semisolidi) è in grado di gestire adeguatamente (lavoro in equipe tra medico specialista, infermiere, logopedista); verrà pertanto elaborata una dieta ad hoc mirata a garantire al paziente un adeguato apporto nutrizionale e di idratazione (grazie alle indicazioni fornite dal nutrizionista). La seconda cosa da fare è identificare le più adeguate posture (lavoro di equipe tra fisioterapista, logopedista e terapista occupazionale) che permettano al paziente di gestire adeguatamente il cibo ed essere in situazione di sicurezza. A questo punto si avvia la riabilitazione neuro-motoria vera e propria, eseguita dal logopedista, e mirata a stimolare e potenziare le competenze delle strutture che intervengono nell’atto deglutitorio sia in termini neuro-muscolari che in termini funzionali.
 
 
Bibliografia
 
‘’Disfagia post estubazione: una complicanza prevenibile? Identificare precocemente il deficit per prevenire le conseguenze a breve e lungo termine’’:
 
Disfagia post estubazione
 
FAQ - Covid-19, domande e risposte

Come migliorare la comunicazione con i figli

Come migliorare la comunicazione con i figli Copertina    (audio/video) (1.304)
Annalisa Muto

 
Benvenuto!
 
Oggi voglio condividere con voi alcuni concetti della Programmazione Neuro-linguistica al fine di creare le basi per svolgere poi ogni attività con i vostri bambini.
 
La logopedista dott.ssa Annalisa Muto risponderà alla domanda: ''COME MIGLIORARE LA COMUNICAZIONE CON MIO FIGLIO?''.
 
 
Nel video troverete tre strategie utili e facilmente applicabili per approcciare al mondo dell'età evolutiva in modo efficace.
 
 
 
Buona visione!

Allattamento: ginnastica per il neonato

Allattamento: ginnastica per il neonato Copertina (2.281)
Annalisa Muto

L'allattamento è quel processo fisiologico con il quale una femmina di mammifero nutre il proprio neonato per il primo periodo di vita, attraverso la produzione e l'emissione di latte dalla mammella. L’allattamento al seno può essere considerato il proseguimento naturale della gravidanza, durante la quale la madre ha protetto e nutrito il suo bambino. Oltre ad essere un atto fisiologico e naturale, ha una grande rilevanza in termini di salute pubblica: i benefici dell'allattamento esclusivo sul corretto sviluppo del bambino e sulla prevenzione di numerose malattie sono da tempo riconosciuti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che considera l'allattamento uno degli obiettivi prioritari di salute pubblica a livello mondiale. L’Unicef, l'agenzia delle Nazioni Unite per la protezione dell'infanzia, dal canto suo ricorda che la diffusione dell'allattamento potrebbe evitare ogni anno nel mondo la morte di 1,4 milioni di bambini. Negli ultimi anni sono stati pubblicati diversi articoli che descrivono l’allattamento al seno come un’attività protettiva rispetto all’obesità infantile, al diabete giovanile e all’ipertensione arteriosa oltre a creare un particolare rapporto affettivo tra madre e figlio.
Il Ministero della salute ha pubblicato le ‘’Linee di indirizzo nazionali sulla protezione, la promozione ed il sostegno dell'allattamento al seno’’ riconoscendo e sottolineando l’importanza di questo atto per la nutrizione nella prima infanzia (esclusivamente al seno fino a sei mesi per continuare poi, con adeguati alimenti complementari, fino a che la madre e il bambino lo desiderino, anche dopo l’anno di vita).
In questo articolo cercheremo di rispondere alle più comuni domande che le neomamme si pongono.
 
Perché allattare al seno?
La dinamica che il bambino mette in atto durante la suzione al seno è una vera e propria ginnastica per le strutture oro-facciali in vista di un corretto sviluppo delle strutture ossee e muscolari e conseguente prevenzione di problematiche deglutitorie e di linguaggio.
In un precedente articolo ‘’Mamma mi dai il ciuccio?’’ ho analizzato a fondo la stretta correlazione tra funzioni orali (deglutizione, respirazione ed articolazione del linguaggio) e apparato stomato-gnatico (cavità orale, i muscoli mimici, la lingua, i denti, i muscoli masticatori, la faringe, la laringe e la cavità nasale). Durante l’allattamento il bambino, attaccandosi al seno, stimola la suzione ovvero quel meccanismo di ingestione di liquidi derivante dalla spremitura del capezzolo. La suzione è un riflesso, un istinto automatico del bambino presente già prima della nascita. Tale riflesso andrà poi fisiologicamente a scomparire con lo sviluppo psico-motorio del bambino e l’incrementare di cibi differenti dal latte materno (svezzamento e nutrizione adulta).
Da un punto di vista anatomo-fisiologico la suzione si compie grazie all’attivazione dei movimenti delle labbra, delle guance, della lingua, della mandibola, del mascellare superiore e dei muscoli facciali. Durante questo meccanismo ben coordinato, si attiva la respirazione nasale (data dal sigillo delle labbra attorno al seno). Nel complesso, questo armonico gioco di strutture va a favorire uno sviluppo cranio-facciale equilibrato.
Oltre che un equilibrato sviluppo muscolare ed osseo, con la suzione al seno la muscolatura della bocca si allena ponendo i prerequisiti per una corretta articolazione dei suoni del linguaggio.
Studi hanno inoltre evidenziato che il bambino allattato al seno durante i primi mesi di vita è meno portato a sviluppare abitudini di suzione parafunzionale o deviata (succhiamento di ciuccio, pollice o altro).
 
Che differenza c’è tra latte materno e formula artificiale (o formula)?
Tutte le associazioni di pediatria e di ginecologia sono concordi nell’affermare che il latte materno è l’alimento più adeguato a garantire una crescita sana del neonato. Il latte materno è un vero e proprio tessuto biologico vivo, specifico per la specie a cui appartiene e dinamico in quanto capace di modificarsi continuamente in base alle esigenze del bambino. Il latte materno cambia composizione durante l’allattamento (dal colostro dei primi giorni al latte maturo delle settimane e dei mesi successivi), durante la stessa poppata (più liquido all’inizio e più corposo e calorico a fine poppata), durante la stessa giornata (più liquidi e dissetante al mattino e più denso la sera). Il latte materno è un alimento ricco non solo di nutrienti ed energia ma anche di componenti importanti per la salute e l’immunità del bambino quali anticorpi, ormoni e fattori di crescita. Per queste semplici ragioni la formula artificiale non potrà mai essere uguale al latte materno, ma sarà sempre, come dice la parola stessa, qualcosa di artificiale, creato dall’industria per sostituire l’originale, cioè il latte materno.
Il latte materno è prodotto dall’attività di suzione del bambino: più la mamma alimenta il piccolo al seno più il latte viene prodotto. Quando il bambino succhia al seno dà l’input alla mamma di produrre il latte, più il bambino desidera succhiare al seno, più l’attività ormonale si attiva per la produzione. Per questo, è consigliabile, soprattutto durante i primi tempi di allattamento, alimentare il bambino al bisogno e non ad orario. Inoltre, il latte materno possiede la giusta temperatura e presenta caratteristiche digestive adeguate alla maturità gastrointestinale del bambino tali da non determinare, tendenzialmente, stitichezza, coliche gastriche e reflusso patologico. Da quest’ultima affermazione ne consegue che il ridotto rischio di risalita del latte verso l’alto diminuisce la probabilità di infezioni delle vie respiratorie (polmonite, bronchite e disordini catarrali) e dell’orecchio medio.
Che la formula sia oggi sempre più disponibile e che l’industria cerchi sempre più di migliorarlo e renderlo simile a quello materno è una gran fortuna e garantisce la sopravvivenza e la crescita di quei bambini che realmente non possono ricevere latte materno. È importante capire che questo alimento dovrebbe essere lasciato come ultima scelta, in quei casi in cui non se ne possa realmente fare a meno. A tal proposito l’OMS considera la formula industriale la quarta scelta per i neonati, dopo il latte materno succhiato dal seno, il latte materno spremuto (per esempio con il tiralatte) e il latte di un’altra donna (le balie di una volta) e chiarisce quali siano le uniche condizioni in cui realmente si dovrebbe utilizzare latte formulato:
  • Lattanti con galattosemia, un raro errore innato del metabolismo (possono essere allattati parzialmente);
  • Madri con infezioni da HIV/AIDS
  • Madri con lesione attiva da Herpes simplex sul capezzolo o Herpes zoster (almeno finché è in atto l’infezione);
  • Lattanti di madri con tubercolosi attiva e non trattata;
  • Quando una madre che allatta riceve radio-isotopi per diagnosi o terapia;
  • Madri che assumono farmaci non compatibili con l’allattamento al seno a causa di problemi di salute (chemioterapici, povidone iodato, iodi 131 radioattivo, sedativi, antiepilettici, oppiacei etc.).
Esistono inoltre casi in cui il bambino necessita di supplemento, oltre al latte materno, per un periodo limitato:
  • Nati con peso inferiore a 1500 g;
  • Nati a meno di 32 settimane di gestazione;
  • Neonati a rischio di ipoglicemia per un difetto di adattamento metabolico o per un’aumentata richiesta di glucosio.
 
Che differenza c’è tra capezzolo e tettarella artificiale?
Per estrarre il nutrimento dalla mammella il neonato deve mettere in atto una dinamica ben diversa da quella utilizzata per la suzione del biberon. A differenza della tettarella del biberon, il capezzolo non contiene latte e succhiare non basta. La bocca deve premere sui seni lattiferi posti dietro il capezzolo e questa pressione può essere esercitata solo se il piccolo è attaccato al seno in modo corretto. La suzione implica due componenti ugualmente importanti: la creazione di un vuoto, cioè di una pressione negativa esercitata dalla bocca, e l’azione di spremitura della mammella determinata dal movimento della mandibola. Il movimento si compie non solo verso l’alto e il basso, ma anche in avanti e indietro grazie all’azione della lingua del bambino e consente una spremitura in particolare della parte inferiore della mammella.
Una buona tecnica di suzione è possibile solo con un buon attacco del bambino al seno. Ed è su questo che bisogna insistere fin dalle prime poppate. Ecco i consigli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
  • La bocca del bambino è spalancata con il labbro inferiore girato in fuori.
  • Il capezzolo arriva in profondità nella bocca del bebè.
  • Le labbra e le gengive del bambino premono contro l’areola creando un vero e proprio sigillo.
  • Il labbro inferiore si trova un po’ più lontano dalla base del capezzolo rispetto a quello superiore.
  • La lingua è posta sotto l’areola, a coprire la gengiva e il labbro inferiore, ed estrae il latte, comprimendo il capezzolo contro il palato, con un movimento a onda.
Durante l’allattamento dal capezzolo materno, le labbra del piccolo si atteggiano in posizione circolare, si determina così una contrazione delle labbra e bocca, un buon sigillo intorno all’areola che impedisce la fuoriuscita del liquido. Diversamente durante l’allattamento con biberon è la tettarella che garantisce per propria conformazione tale sigillo e quindi si determina una scarsa attività della muscolatura periorale.
Nel caso della fisiologica suzione al seno la lingua si comporta da pistone aspirante determinando una pressione intraorale negativa da cui dipende l’aspirazione intrabuccale, essenziale per la suzione del latte; le cose cambiano notevolmente nell’alimentazione al biberon dove la tettarella porta la lingua e la mandibola indietro e non determina la fisiologica stimolazione della muscolatura periorale.
Per quanto riguarda invece la mandibola, questa nella suzione al seno, diversamente dall’allattamento artificiale, non viene spostata indietro ma si solleva, spingendo l’apice linguale verso l’alto in modo da comprimere il capezzolo contro il palato duro. Tutto ciò non è possibile nell’allattamento al biberon in quanto il latte arriva in maniera continua, ed è la punta della lingua che cerca di bloccare tale afflusso per coordinare la respirazione. Infatti, un problema da non sottovalutare in caso di allattamento al biberon è il flusso non controllato di latte in caduta libera. Se il flusso è eccessivo si espone il bambino a un maggior rischio di rigurgito o tendenza a deglutire aria. Per evitare questi inconvenienti è bene mantenere un’inclinazione progressiva: la tettarella deve, cioè, essere sempre piena di latte. Questo si ottiene inclinando a 45° la bottiglia con la formula. Inoltre, tenere il bebè in posizione semi-verticale ridurrà la probabilità di mancata coordinazione fra respiro e deglutizione, dovuta a un flusso di latte mal gestito.
 
Perché mio figlio non si attacca?
Partiamo dal presupposto che, in linea generale, tutte le mamme che hanno partorito sono in grado di allattare e tutti i neonati sono, potenzialmente, in grado di essere allattati. Ci sono però frequenti casi di rifiuto del seno da parte del neonato. Se ciò avviene dobbiamo tener conto che il bambino non sta rifiutando la sua mamma, sta semplicemente esprimendo una difficoltà. È importante capire la causa, chiedendo aiuto ai professionisti (ostetriche, ginecologi, pediatri, osteopati neonatali etc.) ed avviando, ove necessario, interventi precoci. Prematurità, anestesia materna durante il parto, ittero, parto traumatico, infezioni, malattie croniche, frenulo corto, labio-palatoschisi tensioni craniche derivanti da utilizzo di ventosa (etc.) possono causare difficoltà di suzione. Anche un lungo distacco tra la mamma ed il bambino appena dopo la nascita potrebbe aver comportato difficoltà a stimolare la produzione di latte. L’allattamento al seno è favorito dall’incontro e dalla vicinanza tra il neonato e la mamma subito dopo il parto: è importante che stiano vicini, pelle a pelle, così che il neonato possa subito trovare la fonte nutrizionale ed attaccarcisi. Quando il neonato si attacca al seno induce, con la sua suzione, la produzione del latte. Il primo contatto è fondamentale ed indispensabile: quando il piccolo, per qualche motivo, viene allontanato dalla mamma ed entrambi vengono privati di queste prime esperienze, la nutrizione al seno può essere sfavorita perché non si attiva adeguatamente la produzione del latte.
Un altro problema sono le “aggiunte”: se il bambino non mangia ovviamente si interviene con il latte artificiale e il bambino potrebbe abituarsi al biberon, decisamente meno faticoso del seno e più immediato.
 
Ma se proprio non riesco?
È diritto di ogni donna allattare, è diritto e dovere di ogni donna informarsi al riguardo. Ma se ciò non può avvenire? La mamma non può farsene una colpa e la gioia di essere mamma non può essere rovinata dal senso di colpa di non riuscire ad allattare. È bene, pertanto, abbandonare ogni convinzione e stereotipo e viversi la maternità con la propria personalità accettandosi per ciò che si è. L’importante, a mio avviso, è informarsi e rivolgersi ai professionisti per essere guidati in questo meraviglioso percorso.

Osteopatia: Le sue funzioni, i suoi principi e i campi di applicazione 

Osteopatia: Le sue funzioni, i suoi principi e i campi di applicazione  Copertina (813)
Alessandra Benassi

L’osteopatia è un sistema di diagnosi e trattamento che pur basandosi sulle scienze fondamentali e le conoscenze mediche tradizionali (anatomia, fisiologia, etc..) non prevede l’uso di farmaci né il ricorso alla chirurgia, ma attraverso manipolazioni e manovre specifiche, si dimostra efficace per la prevenzione, valutazione ed il trattamento di disturbi che interessano non solo l’apparato neuro-muscolo-scheletrico, ma anche cranio-sacrale (legame tra il cranio, la colonna vertebrale e l’osso sacro) e viscerale (azioni sulla mobilità degli organi viscerali).
Inoltre a differenza della medicina tradizionale allopatica, che concentra i propri sforzi sulla ricerca ed eliminazione del sintomo, l’osteopatia considera il sintomo un campanello di allarme e mira all’individuazione della causa alla base della comparsa del sintomo stesso.
Con staff dello studio di Fisioterapia Fisiologic Mira di Santa Maria delle Mole e con la collaborazione dell’Osteopata Giulia Silvi, in questo articolo ci occupiamo di definire, individuare i campi di applicazione e le tecniche dei trattamenti di osteopatia.
 
 
1. Definizione
Come indicato dal’ “World Osteopathic Health Organization” (WOHO) l’osteopatia è un sistema affermato e riconosciuto di prevenzione sanitaria che si basa sul contatto manuale per la diagnosi e per il trattamento. L’osteopatia agisce sul corpo analizzandolo nella sua interezza, non si sofferma sul sintomo o sul dolore ma cerca la causa scatenante in tutto il corpo. L’osteopatia rispetta la relazione tra il corpo, la mente e lo spirito sia in salute che nella malattia: pone l’enfasi sull’integrità strutturale e funzionale del corpo e sulla tendenza intrinseca del corpo ad auto-curarsi. Il trattamento osteopatico viene visto come influenza facilitante per incoraggiare questo processo di auto-regolazione e autoguarigione. I dolori accusati dai pazienti risultano da una relazione reciproca tra i componenti muscolo-scheletrici e quelli viscerali di una malattia o di uno sforzo.
 
 
2. Funzioni e principi
L’osteopatia analizza il corpo nel suo insieme cercando di includere tutti gli aspetti della vita del paziente: psicologici, ambientali, strutturali ecc. L’osteopatia tratta il paziente stimolando e attivando il corpo, dandogli degli input per favorirne la guarigione. I suoi principi sono:
  • Unità del corpo
    Come metodologia olistica (dal greco olos=tutto) l’osteopatia considera l’individuo nella sua globalità: ogni parte costituente la persona (psiche inclusa) è dipendente dalle altre e il corretto funzionamento di ognuna assicura quello dell’intera struttura, dunque, l’equilibrio psicofisico e il benessere.
  • Relazione tra struttura e funzione
    Un corretto equilibrio tra struttura e funzione regala al nostro corpo una sensazione di benessere. Qualora tale equilibrio venga alterato (a causa di un trauma per esempio) si parla di disfunzione osteopatica, ossia di una restrizione di mobilità e perdita di movimento in una parte del nostro corpo (ossa, muscoli, organi, etc..).
  • Autoguarigione
    In osteopatia non è il terapeuta che guarisce, ma il suo ruolo è quello favorire la capacità innata del corpo ad auto curarsi.
 
 
3. Tecniche e campi di applicazione
Il trattamento osteopatico può avvalersi di numerosi metodi e tecniche di trattamento. Gli osteopati le utilizzano indifferentemente in funzione delle necessità terapeutiche. Una classificazione possibile è quella che fa riferimento a queste tre grandi famiglie che spiegano l’osteopatia cosa fa e in cosa consiste il trattamento osteopatico.
  • Tecniche strutturali
    La tecniche strutturali sono definite tali poiché ristabiliscono la mobilità della struttura ossea.
    La specificità e la rapidità delle manipolazione consente il recupero della mobilità articolare.
    Hanno una forte influenza neurologica, oltre che puramente meccanica, in quanto favoriscono l’emissione di corretti impulsi dalle e alle terminazioni della parte trattata.
  • Tecniche cranio-sacrali
    Le tecniche craniali agiscono sul movimento di congruenza fra le ossa del cranio e il sacro, ristabilendone il normale “meccanismo respiratorio primario”, ossia quella combinazione di parti ossee, legamentose, muscolari, e fasciali che consentono il riequilibrio e l’armonia delle funzioni craniosacrali.
    Con queste tecniche si agisce in particolare sulla vitalità dell’organismo, qualità fondamentale che permette agli esseri viventi di reagire con efficacia agli eventi di disturbo provenienti dall’ambiente esterno e da quello interno.
  • Le tecniche viscerali
    I visceri si muovono in modo specifico sotto l’influenza della pressione diaframmatica. Questa dinamica viscerale può essere modificata (restrizione di mobilità) o scomparire. Applicando una tecnica specifica, l’osteopatia permette all’organo di trovare la sua fisiologia naturale ed i disordini legati alla restrizione di mobilità saranno così corretti. Inoltre esiste da un punto di vista anatomico e funzionale una relazione tra i visceri e la struttura muscolo-scheletrica; una cattiva funzione della struttura (colonna vertebrale), può influenzare uno o più visceri e viceversa. Si possono trovare, in persone che soffrono di mal di schiena, problemi di mobilità del fegato, del colon, del rene o dell’utero. Il trattamento osteopatico mira, attraverso l’addome ed il diaframma, a ristabilire una buona mobilità viscerale.
 
 
4. Cosa cura l’osteopatia
Molti ricollegano il trattamento osteopatico al solo sistema scheletrico ignorando tutti i diversi campi d’azione in cui l’osteopata può intervenire. L’osteopatia agisce su tutto il corpo analizzando condizioni fisiche e ambientali, prestando attenzione anche all’alimentazione e allo stile di vita del paziente. I campi d’azione dell’osteopatia sono vasti: sistema muscolo-scheletrico, sistema digestivo, odontoiatria e agisce anche nei casi di disintossicazioni alimentare e non solo. L’osteopatia interviene durante la gravidanza e post parto sul neonato, interviene sul mal di testa (uno dei motivi maggiori per cui ci si rivolge all’osteopata), dolori articolari e muscolari, otiti, problemi causati da posture scorrette. Acidità e reflusso, irregolarità del ciclo mestruale e problemi post traumi sportivi. L’osteopatia cura con successo anche disfunzioni e problematiche dei bambini sin dai primi mesi di età per esempio: le colichette nei neonati, la plagiocefalia posizionale posteriore, difficoltà d’evacuazione e molto altro.
 
 
5. Limiti dell’osteopatia
Il campo d’azione dell’Osteopatia esclude tutte le lesioni anatomiche gravi, ma anche tutte le urgenze mediche. In questi casi, non si tratta più di cercare il “punto debole” che ha permesso l’instaurarsi della malattia, ma di agire urgentemente, poiché la patologia in causa non può più essere combattuta con le sole difese dell’organismo.
L’Osteopatia non può guarire le malattie degenerative, le malattie genetiche, le malattie infettive e/o infiammatorie, le fratture.
Tuttavia, anche se l’osteopatia non può avere un’azione su queste affezioni, può avere un’azione sulle conseguenze, in particolare il dolore, con la liberazione delle tensioni delle strutture.
 
 
6. Riconoscimento
Nel 2002 l'osteopatia viene riconosciuta dall'OMS - Organizzazione Mondiale della Sanità - a titolo di partecipazione al mantenimento della salute e inserita tra le Medicine Non Convenzionali.
Attraverso suoi documenti l'OMS indica di avviare politiche nazionali volte ad integrare le medicine non convenzionali nel sistema sanitario e di uniformare quanto più possibile le legislazioni.
Le istituzioni sanitarie italiane non sono ancora in linea con tali direttive, pertanto alcune iniziative di legge volte al riconoscimento giuridico dell'osteopatia si trovano in fase di approvazione dal parlamento.
Ad oggi l'Osteopatia è quindi non riconosciuta dal Servizio Sanitario Nazionale Italiano.
L'osteopatia invece è regolarmente riconosciuta in Inghilterra, Belgio, Francia, Finlandia, Svizzera, USA, Canada, Australia, mentre in molti Paesi è in fase di regolamentazione. In Italia nonostante il vuoto legislativo la formazione degli osteopati è regolamentata dalle associazioni, registri e sindacati di categoria che, ponendosi in linea con le indicazioni osteopatiche europee, stabiliscono precisi requisiti di accesso alla professione e indicano un rigoroso modello didattico alle scuole che vogliono essere riconosciute e accreditate.
Il CSdO - Consiglio Superiore di Osteopatia - rappresenta l'osteopatia Italiana ed è costituito dalle maggiori associazioni di professionisti presenti sul territorio nazionale (AIMM, AMOI, FeSIOs, ROI, UPOI)
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